martedì 4 novembre 2008

il Pigato, il roseto di Nervi ed il Vermentino


Il roseto di Nervi, Rodolfo Comelli




Oggi pubblichiamo il racconto di Giacomo Bezzi per la raccolta dei testi in concorso per "I giorni del vino e delle rose".


Giacomo Bezzi
è nato a Carrara il 1° febbraio 1930. Risiede a Pisa.
Carrarese di nascita, ha abitato negli anni della fanciullezza a Genova, città dove era tornato negli anni Sessanta dopo una parentesi postbellica a Carrara. Era impiegato in una casa di trasporti e di collettame. Poi la svolta negli anni Settanta, con la nomina a delegato per l'Italia dell'Ente Fiere di Lione, ed a promotore di saloni che si tenevano a Parigi, a Dubai ed a Honk Kong. Da qualche anno Giacomo è tornato a scrivere ed i suoi testi sono inseriti nel suo sito web. Giacomo Bezzi ha collaborato a Quotidiano Travel, testata di politica turistica, e molti siti web hanno ospitato i suoi testi.


Racconto

"IL PIGATO, IL ROSETO DI NERVI ED IL VERMENTINO"

di Giacomo Bezzi


Quella sera erano tutti allo stesso tavolo, ad una trattoria della zona dei bagni di Sturla che si era riciclata in ristorante di pregio con tanto di carta dei vini, in occasione della cena degli Amici dei Musei a conclusione dell’anno sociale.
E c’era anche lei, che lui non conosceva né di nome né di cognome, ma che vedeva via via alla stazione di Nervi quando saliva insieme con lui, intorno alla sette di sera, sul diretto Torino-Firenze via La Spezia-Pisa.
La compagnia degli Amici dei Musei, quella sera era piuttosto rumorosa malgrado mettesse assieme una bella fetta della cultura genovese, come sempre piena di presumì (1).
Ma, tant’è, quel piatto di gamberoni alla griglia aveva fatto dimenticare le problematiche dei restauri di alcune edicole dei carruggi, e aveva fatto dimenticare altrettante problematiche quel Pigato della Riviera che sgorgava a fiotti dalle bottiglie targate Savona.
Lui se la diceva col dottor Giuliani, che era di Poggibonsi, per via delle comuni origini toscane e anche con le signore genovesi che stavano un po’ sulle loro, anche se lui via via le interpellava in genovese, lingua – e non dialetto, mi raccomando - che aveva ereditato dalla madre e da una parentela piuttosto complicata divisa equamente tra Marassi e Sestri.
Anche lei denunciava origini toscane perché le sfuggiva una parola senza c. Come quando disse che la compagnia era simpàtia.
Pisana? Livornese? O di Pontedera? Di Càscina? Chissà.
Semplice: era pisana, sia chiamava Marianna Cecchini, ma si faceva chiamare semplicemente Maria perché Marianna le era sempre sembrato un nome goffo.
Era una maestra elementare che, dopo aver girovagato a suon di supplenze ed incarichi per periferie anonime e borghi della Valbisagno, aveva avuto il ruolo alle scuole di Sturla; a pochi passi dal ristorante dove erano ora. Poi la pensione.
Abitava in una casa d’affitto in Via Redipuglia dove Sturla finisce e comincia Quarto, in un condominio abitato in prevalenza da personale della Provincia.
Gli chiese perché anche lui, che denunciava origini toscane, era a Genova e dove abitava, dato che anche lei lo aveva notato alla stazione di Nervi.
Non gli ci volle molto per spiegarle che era emigrato a Genova alla fine degli anni cinquanta per lavorare in una ditta di importazione di ferraccio a riempirsi i polmoni di ruggine, a Cornigliano.
Le raccontò anche che, poi, al raggiungimento dell’età pensionabile, aveva deciso di trasferirsi nel Levante. Le disse anche che abitava a Priaruggia ad un cinquecento-mille metri in linea d’aria da Via Redipuglia.
Che ci andava a fare in Toscana?
Rispose che anche lui aveva alcuni parenti e diversi amici di infanzia da andare a trovare, sparsi tra Carrara e Viareggio, ove aveva mantenuto una piccola proprietà: una viareggina che era quasi sempre chiusa e che aveva bisogno ogni tanto di essere tenuta aperta.
La serata continuò in allegria e finì con un arrivederci alla prossima occasione. verificata
Dopo averci pensato su un paio di volte, lui sbottò: “Dopodomani c’è una bella cosa da vedere al Roseto di Nervi. Perché non ci andiamo inseme? Si potrebbe passare un bel pomeriggio.”
Lei non disse di no; anzi ci fu tutto uno scambio di bigliettini con numeri di telefono e di indirizzi con tanto di numeri civici.
Si videro davvero l’indomani: lei arrivò all’appuntamento, alla fermata del 15 davanti al Gaslini, puntuale come un treno svizzero. Era un pomeriggio di primavera e cominciava a far caldo.
Quando arrivarono al capolinea di Nervi, lui la lasciò per qualche minuto per entrare da Patàn che è lì vicino, per dire ad un cameriere che sarebbero ripassati all’ora di cena e di riservare loro un tavolo.
“Ma che combini? Non vorrai mica che…”
“Sì: vorrò proprio che.”, ribatté lui.
Andarono al Roseto di Villa Grimaldi ed assistettero ad una premiazione di un concorso per composizioni di rose in un trionfo di colori e di profumi. Alla fine, come per tradizione, le composizioni quelle premiate, ed anche quelle no, furono regalate alle signore presenti, ed una toccò anche a lei, con un: “Così piacerà di più a suo marito.”. Ci scappò un sorriso, ed i loro sguardi si incrociarono compiaciuti.
Lungo il tragitto di ritorno, cominciarono le confidenze ed i racconti.
Lui le spiegò che abitava da solo da molti anni; da quando, cioè, la sua fidanzata lo aveva lasciato per sempre maciullata sotto un autotreno. Per il mangiare ci pensava da solo, anche se i suoi pasti non erano granché di vario.
A volte, di domenica, era invitato a pranzo da delle cugine di Marassi, ed altre volte dai parenti di Sestri, ed erano occasioni per sentirsi zio di una serie piuttosto abbondante di nipoti.
Donne?
Qualcuna, in tutti questi anni: ma tutta gente da classificare come esseri inferiori, o quantomeno poco affidabili.
E lei?
Più o meno una storia analoga, ed una vita che era avviata alla solitudine se non fosse stata corroborata dall’amicizia con alcune colleghe coetanee.
Uomini ?
A suo dire, meglio non parlarne, perché nessuno aveva avuto con lei intenzioni serie e menchemeno matrimoniali.
Il suo trantràn era più o meno come quello di lui, con pasti frugali e tanta televisione.
Faceva spesso delle capatine in Piccapietra alla Rinascente o da Coin per tenersi aggiornata su tendenze e prezzi, e, magari, comprare qualcosa di pratico ma elegantino come il tailleur che indossava. Poi, qualche incursione al Margherita per poter raccontare ai parenti pisani di aver visto Gino Bramieri, Walter Chiari e Macario e di aver sentito cantare Bergonzi e la Tebaldi.
Altre volte andava al Duse o al Genovese ed aveva visto quasi tutti gli spettacoli di Luigi Squarzina.
* * *
Erano già più delle otto ed i parchi stavano chiudendo. Tornarono sui loro passi, imboccarono il Viale delle Palme e si trovarono ben presto sulla piazzetta: girarono l’angolo a destra e, fatti pochi metri, entrarono da Patàn ove erano attesi da un tavolo con il cartellino di riservato.
C’era in menù un’offerta tutta genovese e non poterono far a meno di prendere due porzioni di mandilli de sèa (2) col pesto che altrove avrebbero trovato con difficoltà, e, poi, una frittura di pesci garantiti del Golfo di Camogli

Èù+ù+ù. Il tutto annaffiato da un Vementino della Riviera che andava giù che era una bellezza, anche se non era il Pigato di due sere prima.
Continuarono a parlare delle loro cose, di vecchi ricordi e di prospettive future fino a che non venne l’ora di pagare il conto e lasciare Patàn con un arrivederci.
La lasciò sulla portone della casa di Via Redipuglia ringraziandola un po’ formalmente della bella giornata passata assieme, e le chiese il permesso di darle un bacio sulla guancia. Permesso accordato.
Giunto a casa, le telefonò: lei gli raccontò, poi, di essere balzata da letto all’arrivo dello squillo non atteso e della telefonata della buonanotte altrettanto inaspettata.
Forse non le era mai capitato.
La storia si ripeté per altre quattro volte con bacino telefonico della buonanotte dopo quello sulla guancia sul portone di casa di ritorno da passeggiate pomeridiane.
Giunti per la quarta volta sul portone di casa sua, le disse, non senza impappinarsi:
“Ascolta, Maria: mi sto innamorando di te. Se mi credi, dammi un bacio.”
Lei lo baciò appassionatamente e una furtiva lacrima sugli occhi suoi spuntò.
Salirono in casa sua e fecero un brindisi con una bottiglietta di spumante Gancia che era in frigo da forse un anno.
Passarono mesi di allegria, tutti e due felici e desiderosi di mettere un po’ d’ordine nella loro vita che non era disordinata, ma quasi.
Primo obiettivo: regolarizzare la loro situazione sposandosi subito.
Poi, fare una scelta definitiva sulla loro vita futura: tornare in Toscana continuare a vivere a Genova?
Avrebbero potuto sistemarsi a Pisa, dove i prezzi delle case, anche di costruzione recente, erano la metà di quelli genovesi. A Viareggio no: la città non piaceva più a lui, ed a lei sarebbe sembrato di essere una bagnante venuta dalla campagna.
Si sposarono nella basilica delle Vigne e furono loro testimoni un suo amico che aveva una microgalleria d’arte nella microPiazza delle Oche che confina con la basilica, e due parenti di lui equamente divisi fra quelli di Marassi e quelli di Sestri.
La prima notte d’amore la passarono in casa di lei e, quando si svegliarono, sembrò loro di vivere il primo mattino del mondo.
Poi, lui vendette la viareggina e lei vendette un piccolo podere ereditato dal padre e che era dalle parti di Riglione. Unirono gli sforzi ed i quattrini e comprarono un appartamento a Pisa, nella zona delle Piagge ove trovarono vicini di casa commossi dell’arrivo di questa coppia di sposi che si erano trovati in età ultramatura: la signora Maria, poi, era divenuta la loro cocca.
Li vedo ogni tanto a passeggio per i Borghi in compagnia di due signore che so far parte del consiglio direttivo del Circolo del Portone, e so anche che spesso vanno a Genova con gli Amici della Lirica a vedere delle opere al Carlo Felice
Qualcuno, poi, mi ha anche detto che la parola portoghese saudade si traduce con maseghe-pensu.(2).



Note per coloro che non conoscono il genovese:
(1) presumì: è una parola intraducibile che potrebbe anche significare presunzione,
(2) mandilli de sèa (fazzoletti di seta): sono lasagne larghe quanto la fondina,
(3) “Ma se ghe pensu “(ma se ci penso, allora rivedo il mare etc. etc.): è l’inno nazionale genovese che tutti dovrebbero conoscere, perché è l’equivalente del Bacione a Firenze o della Bèla Madunina.


Giacomo ha inoltre fatto dono a Villa Petriolo di un altro testo, il breve saggio intitolato - sul filo dell'ironia, come sottolinea l'autore - "Delizie dell'editoria turistica", che pubblichiamo con molto piacere! Tante curiosità sulla nostra bella Toscana.


Trent’anni di Genova, di gente chiusa a riccio e di manimàn (1) mi avevano stancato.
Ero tornato da qualche mese definitivamente in Toscana da dove ero partito con la valigia piena di speranze, e non vedevo l’ora di metter su anche una casa per le mie vacanze, dato che un appartamento in città, a suon di salti mortali, bene o male l’avevo già comprato. Anzi; mi ci era rimasto anche qualche milione proprio per levarmi la voglia di una seconda casa.
Molti miei colleghi genovesi l’acquisto l’avevano già fatto; chi nell’Appennino ligure o chi nelle Alpi Marittime, versante cuneese.
Nell’Ovadese per molti, e, per i più in soldi, a Limone Piemonte o a Viola.
E, poi, per loro, andava bene così perché a Genova c’erano rimasti, anche se non tutti erano proprio genovesi du mo”. (2)
Qualcuno era addirittura sardo; altri calabresi e siciliani. Tutti cabibbi (3), comunque: tutta brava gente e grandi lavoratori, ma pur sempre cabibbi.
Dunque, mi si presentava questo problema: dove trovare questa famosa casa di campagna, che, oltrettutto, rappresentava a quei tempi il massimo del successo.
Avevo scelto la campagna perché venivo da una città di mare, e poi il mare in Toscana è: o la Versilia che per me era troppo cara, a meno di non finire al Cinquale famoso solo perché di lì è venuto Panariello; o posti tipo Follonica che a me non dicevano niente.
Montagna? All’Abetone c’ero stato una volta sola e m’era bastato perché avevo preso tanto freddo, e non so sciare.
Restava la campagna: meglio ancora la collina, perché la Toscana più bella è quella della collina.
Fiesole, il Chianti, la Valdorcia, il Mugello, le Crete Senesi, la Valdicecina, l’Alta Valle del Serchio, il Camaiorese: ne parlavano tutte le riviste.
Non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Ne parlai con un bancario che sapevo essere di San Miniato e lui mi diede le prime dritte che accettai molto volentieri perché in quella cittadina su tre colli c’ero già stato un paio di volte alla sagra del tartufo, e m’era piaciuta: aveva un’atmosfera.
E, allora, vai con San Miniato.
Primo approccio, un’agenzia d’affari a due passi dal capolinea delle corriere: uno sgomento. Il mediatore mi disse che, sì, di affari ce n’erano da fare moltissimi; ma fino a due o tre anni prima, quando quasi tutta San Miniato e dintorni erano in vendita a pochi milioni.
I sanminiatesi, a detta del mediatore, si sentivano emarginati, tagliati fuori del mondo civile a causa della solita strada statale numero 67 - detta pomposamente Tosco-Romagnola – che passa nel fondovalle e che, invece che collegarli velocemente con Pisa o con Firenze, li faceva stressare con le sue curve, i suoi camion e coi suoi semafori, la sua gente bècera sulle porte delle case: e, allora, perché non vedere tutto e andar a star di casa, perché no?, a Pontedera dove almeno ci sono due cinema?
Senonché, sempre a detta del mediatore, due o tre anni prima del mio arrivo era arrivata a San Miniato Basso la superstrada FI-PI-LI che avrebbe dovuto congiungere rapidamente Firenze con Pisa e Livorno, e che, per il momento, si era fermata lì per mancanza di fondi.
Ci fu un’invasione di fiorentini della domenica che comprarono tutto quello che era comprabile per andarci a fare i finesettimana; era rimasto poco, e quel poco, caro. Sennò Balconevìsi o Corazzano.
Ma a Balconevisi e Corazzano chi ci va? Non c’è neanche la corriera.
Fiasco: il mediatore mi disse che, nel giro di una ventina di chilometri, c’era a buon mercato solo la Valdera.
Valdera? Secondo le solite enciclopedie che spezzano al popolo il pane del sapere, è la valle del fiume Era che nasce dalle falde dei monti di Volterra e si getta in Arno a Pontedera. Di più non dicono.
All’Ente del Turismo di Pisa ne sapevano ancora meno.
“Sì c’è Ponsacco, c’è Terricciola, ci sono Palaia, Pèccioli e Capànnoli, ma di più non sappiano dirle perché non c’è neanche una proloco.”. Il quadro non era invitante. Tant’è, attratto dal fattore buon mercato di cui alla segnalazione del mediatore di San Miniato, una bella mattina presi a Pontedera la corriera per Volterra: avrei attraversato tutta la Valdera e mi sarei reso conto di cosa fosse in realtà questa valle sconosciuta.
Ponsacco: scartata perché nulla di più che un paese di pianura.
Capannoli: s’intravedono delle colline. Terricciola, idem.
Pèccioli: forse è un bel paese, là su quella collinetta; e, poi, c’è la Coppa Sabatini.
La Sterza e Lajatico: lì c’è nato Andrea Bocelli.
La Valdera cominciava a piacermi: belle campagne coltivate a girasole, qualche dosso fatto a mammella con i cipressi sulla cima a mo’ di capezzolo: molto cartolinesco, ma bello. Poi, vigneti ben curati e ovunque manifesti multicolori indicanti le sagre più svariate: quella del crostino, quella della lepre, quella del castagnaccio, quella del tordo, quella della pizza, quella della fettunta, quella della pappa col pomodoro e quella della torta di ceci.
Tornai da quelle parti dopo qualche mese, in compagnia di un pisano col quale avevo stretto amicizia e che era un’enciclopedia vivente del ciclismo. Venne entusiasta con me a Pèccioli per via della Coppa Sabatini, e mi spiegò che Sabatini era un bravo ciclista pecciolese dei tempi di Bartali, morto giovane.
Non trovai nessuna casa che facesse al mio caso, ma conobbi dal giornalaio il sindaco del paese che mi confermò quanto mi avevano detto all’Ente di Turismo di Pisa: non c’era neanche una proloco, né una guida della zona.
“E allora perché non la scrive lei? So che scrive per delle riviste di politica turistica; non dovrebbe esserle difficile. Se vuole, le mando per posta dei ritagli di giornali che parlano della nostra zona”.
Detto fatto: dopo qualche giorno mi arrivò un fascio di vecchi giornali ed alcune note scritte a mano dal sindaco su foglietti di carta a quadretti.
Per il resto, mi arrangiai telefonando qua e là ed andando a trovare a Pontedera per degli aggiornamenti un piccolo gallerista col quale avevo da anni un bel sodalizio.
Nei mesi seguenti, avevo girato un po’ a destra ed un po’ a manca in tutta l’area compresa tra Pontedera e le Signe, accompagnando in brevi gite domenicali piccole comitive di soci delle Acli o signore dell’Università degli Anziani, per visitare quel che c’era da vedere a Montòpoli Valdarno (festa medioevale), Santa Maria a Monte (la processione delle Paniere), Lastra a Signa (Villa Caruso), Terricciola (la sagra degli uccelli), Ponsacco (la Mostra del Mobile), San Miniato (la Festa del Tartufo), Bièntina (il mercatino dell’antiquariato), La Sterza (Fiera di Primavera), e Fucecchio (il Palio).
Ben presto mi accorsi che di guide turistiche potevano uscirne non una, ma due: prima quella della Valdera come mi aveva consigliato quel sindaco, poi una del Valdarno Inferiore.
In poche parole: due viaggi ideali da Pontedera a Volterra e ritorno il primo, dalle Signe a Pontedera e ritorno il secondo: il tutto con riferimenti a storia industriale (la Piaggio, le concerie, il mobilio), ad arte dove c’era, a personaggi fuori del comune (Indro Montanelli, Enrico Piaggio, Corradino D’Ascanio, Eusebio Valli, Enrico Caruso, Mario Filippeschi, il Cieco di Gambassi, Benozzo Bozzoli), con soventi incursioni nell’enogastronomia (i Chianti delle Colline Pisane, il Bianco di San Torpé, i tartufi di San Miniato, i carciofi di Empoli).
Mi misi al computer a gettai giù tre o quattro paginette al giorno fino quando potei chiudere le due guide coi sacrosanti ringraziamenti a chi mi aveva aiutato.
E le illustrazioni? Già, giusto: le illustrazioni.
Parecchie foto, una sessantina, le avevo già scattate io durante le mie escursioni con le Acli e con le signore dell’Università degli Anziani ; le altre le avrei potute trovare – magari vecchi biancoenero – dall’Ente del Turismo di Pisa ed a quello di Firenze perché da Fucecchio in su è provincia di Firenze.
Primo fiasco, proprio a Firenze e a proposito della Villa Caruso di Lastra a Signa che costituiva il primo capitolo della Guida Rapida del Valdarno Inferiore. Niente da fare:
all’APT di Firenze ne avevano sentito parlare, ma di foto proprio non ne avevano.
Secondo fiasco, a Pisa ove chiesi se avevano qualche foto della Villa Medicea di Camugliano. “Camugliano? Booh”.
Morale della favola, mi inventai una gita domenicale delle Acli a Lastra a Signa con digressione finale poco oltre Ponsacco, per fotografare in santa pace: a Lastra, la Villa di Caruso e a Camugliano, la Villa Medicea.
Si trattava ora di trovare un editore.
Andai sparato a Livorno dove, in una strada traversa a cento metri dalla stazione, c’è
l’ufficio di un editore che avevo conosciuto alla Camera di Commercio.
Non gli portai scartoffie per non far la figura di Tommasi di Lampedusa che girava tutti gli editori italiani con una borsa piena dei manoscritti del suo Gattopardo.
Gli illustrai a voce la due guide: poi, se voleva, gli avrei portato anche i manoscritti. .
Le guide della Valdera e del Valdarno Inferiore?
Ottime ma fuori del suo giro d’affari che si limitavano a Livorno e non andavano oltre il Ponte sull’Ugione. Casomai, se ne sarebbe riparlato con una guida della costa che va da Cècina a Tirrenia: mancava anche quella, e nessuno aveva avuto ancora l’ardire di scriverla.
Un editore di Pisa mi aggredì dicendomi:
“Ma come! Lei scrive ancora col WS2? Non sa che ora c’è Windows e Word?”
Poi, più conciliante, continuò:
“Beh, male di poco; un pomeriggio venga qua che trasferiamo il suo WS2 archeologico in qualcosa di più moderno.”.
Cosa fatta; gli piaceva anche lo stile discorsivo, andavano bene anche le illustrazioni.
Con tre o quattro milioni di lire si potevano fare tutte e due le guide, previo mio contributo di metà della spesa.
“E dove le distribuiamo? Nelle edicole, nelle librerie, nelle cartolerie ?”
“Ennò; io faccio l’editore e non il distributore di giornali con tutta la contabilità che c’è da fare per via delle rese ”.
Fine dell’avventura delle guide della Valdera e del Valdarno Inferiore.
Poi, pollo che non sono altro, lasciai passare un annetto e, sfruttando alcune conoscenze dell’ambiente livornese e cecinese, mi avventurai in una guida rapida di quella che ora si chiama Costa degli Etruschi.
Mi ripresentai all’editore livornese per dirgli che la guida che mi aveva consigliato era quasi pronta.
“Benissimo: allora quando è finita mi porti il manoscritto ed intanto firmi qui”.
Mi mise sotto il naso un formulario scritto in corpo quattro come quelli delle assicurazioni e dei bugiardini delle medicine. Me lo portai a casa per vedere cosa c’era da firmare. Dall’editore livornese non ci tornai mai più.
L’anno dopo, mi trovai a fare il villeggiante a San Marcello Pistoiese ove, manco a farlo apposta, non esisteva una guida che è una.
“Perché non la scrive lei ?” mi dissero all’APT della Montagna Pistoiese.
“Sì, la scrivo e poi ve la faccio leggere se avete una connessione con Internet”.
Oggi le tre guide (Valdera, Valdarno Inferiore, Montagna Pistoiese), più un'altra guida semiseria della Riviera di Levante dal Bracco a Bogliasco, sono nel mio sito Nella Rete e sono di dominio pubblico. Chi le vuole, si fa un hptt://freguggia (4).interfree.it e se le legge gratis.
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NOTA PER CHI NON CONOSCE LA LINGUA (NON E’ UN DIALETTO)
GENOVESE
(1) Manimàn è un avverbio intraducibile che è la sintesi delle indecisioni e della diffidenza dei genovesi: si potrebbe tradurre ‘non si sa mai’ o ‘può anche darsi’.
(2) L’ho scritto così perché il mio programma di scrittura non ha le dieresi: o” si legge come la oeu francese di ouef (uovo), e u mo” in Genovese vuol dire il Molo, che è il rione dove c’è Porta Siberia e ora anche il Museo delle opere di Emanuele Luzzatti. I genovesi con quattro quarti di genovesità sono genovesi del Molo.
(3) I cabibbi sono, in Genovese, i meridionali, perché cabibbu è l’equivalente del milanese terùn. La parola deriva dall’arabo khabib o habib che significa amico, parola certamente appresa dai marinai genovesi nel corso dei loro viaggi nel Mediterraneo.
(4) Freguggia in Genovese significa briciola, ma soprattutto la parola fa rima con Priaruggia, il pittoresco rione sul mare di Quarto dei Mille, periferia elegante del Levante di Genova, ove abitavo io.

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