martedì 23 giugno 2009

Ebrezza di Aurora Tosi



Il racconto Ebrezza della giovane Aurora Tosi si piazza tra i segnalati del concorso di Villa Petriolo edizione 2009. Complimenti Aurora!


Aurora Tosi è nata a Pietrasanta (LU) nel 1992 ed abita a Seravezza (LU).
Al terzo anno del Liceo classico G. Carducci di Viareggio, nel 2005 si è classificata terza al Premio internazionale di Poesia di Triuggio “Centro Giovani e Poesia” e al Premio Nazionale di Poesia "Padre Raffaele Melis o.m.v.". Vincitrice nel 2005 e 2006 nella sezione poesia per le scuole medie del premio Bertelli organizzato dal Comune di Pontedera e dal centro culturale “Identità", è vincitrice del concorso nella sezione componimenti individuali del premio in Memoria di Vasco Zappelli indetto dalla Comunità Montana Alta Versilia nel 2006.


Racconto EBREZZA

E ad oggi mi rendo conto della sua freschezza, quasi dea primaverile risvegliatasi nel pacato meriggio autunnale. Era una giornata obliqua d'autunno, i raggi cadevano a fiotti di luce dorata, sopra i prati arrossati dal respiro mortale dell'estate appena trascorsa. Forse vagavo ancora spinto da un'eco desiderato di libertà tra le raspe succose, aspre nel quieto tramonto. Come ogni sera, tra le foglie danzanti nel pulviscolo sepolcrale della notte incedente, stavo compiendo la triste svestizione dai panni quotidiani sotto i passi incalzanti di una maturità già andante verso un'opaca vecchiezza, mentre l'antico rosario di sospiri era un coro sommesso ai miei pensieri remoti. Tremavo nella debole brezza che accompagnava il mio andare ramingo, come la notte ai margini dei colli tutt'attorno. Nell'attimo muto del mio spirito apparve, fata ebbra di bellezza, a devastare il mio cuore, sotto una fronte marcata dal vento oscuro che grava sul cuore impavido. Ella era distesa al cielo miele sulle sue labbra, in un'alcova di fiori ed erba nuova, incastonata nella chioma distesa sul terreno sussultante. Il respiro ritmato da un sonno tranquillo, mi sporsi sul suo volto dormiente, leggermente accaldato dall'ultimo amore del sole che muore. Forse un sogno di debolezza, ma già amavo le sue palpebre abbassate su una fragranza leggiadra di essenze dolciastre e la polvere fine delle stelle che incorniciava il suo collo, quel petto morbido tra le onde della fine veste che chiara scivolava sul suo corpo, affusolato nella semplice bellezza di una giovinezza eterna. Da sempre preferii l'umanità addormentata, nel suo volto si riscopre l'ingenua verità della fanciullezza, magari fu per questo che il mio sguardo dimorò a lungo sulle linee appena accennate del suo volto, nel misterioso tentativo di cogliere i suoi occhi celati. Improvvisa come una pioggia estive che dilava la terra riarsa dall'infinito rinascere, ella si svegliò dal suo sonno di nuvole e spalancò i suoi occhi verdi d'immenso, ridendo fresca come la rugiada mattutina al canto che effonde per l'aria sentore di festa. Rise e fuggì in un sol gesto, nei prati ondeggianti sotto il suo corpo libellula nella gola assetata di giovani querce; scivolava voltandosi e sempre ridendo, in un piccolo gorgogliare d' acque zampillanti e limpide, sulla pietra liscia del torrente, un sentore lieve di fiori essiccati, di fieno portava il suo corpo appena rinato dal connubio con la terra ruvida. Io correvo chiamando un nome a me ignoto e cantavo con la voce cupa del vento ululante parole d'amore alla ninfa ammaliatrice. Stupito del mio andare irrequieto dietro alla sua innocente beltà, macchiata dall'impurezza dei miei anni trascorsi in un affannoso telo di spessa serietà intellettuale e compostezza, mi abbandonavo nell'interezza del mio io ansimante alla ricerca disperata dai sensi, di quella giovane vita così sconosciuta. L'austerità del mio volto andava dileguandosi in un rossore di bonarietà ingenua e la mia speranza era incerta, come l'incedere di lei, che sempre fuggiva, talvolta voltandosi, ma ora volteggiava attendendomi, ora scompariva misteriosamente. La notte gravava sul cuore e mentre l'oscurità invadeva le stanze vuote delle case, ora accese sotto gli illusori desideri di un giorno prolungato, disperato lontano ella mi portava dalla poltrona attesa del mio studio ombroso. Era lei a guidare il mio spirito, nell'invadere del buio, correva sicura, come le stelle sulle tratte dei cieli, si dileguava luminosa scia e narrava storie celate negli atri racchiusi del pozzo della mia mente. La chioma bella dei suoi capelli vagava nell'aria amante e la fragranza della sua pelle si scioglieva in avvolgenti profumi, lontani riecheggiare di passioni sommerse. Attorno a lei che ballava scendeva una pioggia di petali, pallidi nella luce lunare, e fate ornavano di fiori la sua veste, i capelli scuri e morbidi. Delicate roselline candide sullo scollo appena accennato dell'abito frusciante, tra i capelli fiori d'arancio e drappi di glicine odoroso piovevano sulla sua pelle vellutata. Rideva e scompariva veloce, nel folto della boscaglia e giù oltre per i declivi scoscesi, dove il suo corpo si tingeva di luna e il gelsomino notturno fioriva il suo respiro d'amore. Il mio passo duro sulla terra riecheggiava nell'estremo silenzio che attorniava la nostra pazza corsa infinita ed ella mai si lasciva raggiungere, mai il mio braccio sfiorò la sua persona incantata, e l'amore da cui la mia anima era attanagliata sempre più si rendeva una sola pura speranza di compresenza di pensieri e di attimi, fluendo in estasiata contemplazione e un riflusso avvolgente di calda mareggiata scendeva nella gola cantando e sorbendo l'animo in succose sorsate ricche di lei. Giunse infine tra le strade nottambule della città. Nella folla pressante di uomini senza volto ella correva instancabile e il mio sguardo tremava nella disperata consapevolezza di vederla dileguare nella massa chiassosa. Ma ella sempre luminosa risplendeva e via veloce fuggiva nel rumoroso brusio indifferente. Ansimavo dietro ai suoi passi appena percettibili, lungo le strade squallide cittadine, dietro di lei, menade danzante, nel suo effluvio sempre più intenso di biancospino. E la sua giovinezza svaniva nel mio incedere gravoso, nel burbero rimescolio del mio cuore, sotto l'arrossato spessore delle mie gote, ella lontano svaniva e io sussultavo di terrore. Il mio amore reclamava la sua anima effimera, irraggiungibile, mutevole e insensata, eppure così ammaliatrice, ubriaca della sua grazia divina. E io bevevo a pieni sorsi il nettare dei suoi sguardi che scioglievano in un offuscato bagliore dorato, lontano nell'alba che avanzava rosata sulla sua pelle lucida; temetti un momento di perderla nel bagliore del sole nascente, che accecò i miei occhi ormai stanchi, per il lungo cercare. Poi la vidi in tutta la sua bellezza, finalmente ferma. Eretta, sulla spiaggia bagnata dall'acqua spumosa, scossa dal canto ammaliatore delle sirene, nel vento burrascoso di salsedine. Scalza, sulla sabbia umida e fredda, il suo sguardo incupitosi all'improvviso, mi scrutava serio nell'improvviso silenzio delle sue labbra. Le ciocche libere nell'aria impetuosa, che strappava il cuore dal petto con la sua foga insaziabile, eppure sollevandolo da lutti gravosi, un brivido sulla sua pelle, l'estremo profumo di uno splendore oramai coperto dall'infinita voracità degli animi e dalla polvere spessa di una vita, una rosa appassita e l'ultimo fresco aroma di stelle e di mela. La guardai un momento, un solo sorriso d'eterno ed ella sfiorì in uno spruzzo di stelle nella distesa vorace di un mare immenso color del vino.

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