mercoledì 17 novembre 2010

“La pizza di nonna Margherita” di Tiziana Monari per la raccolta dei racconti de "La gaia mensa"



Un altro bel racconto per la raccolta del quarto concorso letterario di Villa Petriolo “La gaia mensa” è “La pizza di nonna Margherita” di Tiziana Monari.

Tiziana, di Prato, ha partecipato a numerose antologie, tra cui “Donne in poesia”, “Ladre di desiderio”, “Briciole di Senso”, “In senso inverso”, “Il silenzio dell’anima”, “Concorso di emozioni”, “Di quel fuoco”, “Poetica”, “Scrivere”, “Erositylove”, “Di Versi nel vento”, “La parola sensuale”"My secret Dyary","Il suono del silenzio". È presente con racconti e poesie in svariate antologie della casa editrice Aletti e Perrone. Si e' classificata ai primi posti in numerosi concorsi letterari vincendo NEL 2009 il Trofeo Mons Aureus di Montelepre, il premio Vigonza per la poesia dialettale, il premio Stella e Antonio Norbiato, il Viareggio carnevale, il premio poesie del terzo millennio della Capit a Roma, Il Silchelgaita, Arteinstrada, Deandreade, Castelli magico mondo di pietra, Fratelli della stazione Foggia-Premio internazionale città di Fucecchio-Premio Poetare è d'amore- Giuseppe Altobello. Ha ricevuto il premio della Stampa di Vercelli al concorso Mario Barale,il premio della critica Luciana Baroni al concorso di poesia Capannori-Lucca-Il premio della giuria al concorso Natta di Vallecrosia. Nel 2006 ha pubblicato l’Opera di poesia “Frammenti d’anima.” Con la raccolta “Il cielo capovolto” ha vinto il Premio Letterario-Editoriale “L’Autore". E di quest'anno la sua ultima pubblicazione "Il lamento di Antigone". E' presente nel museo della poesia dei poeti contemporanei di Garassio, e nell'antologia “Aletti" dei poeti italiani.



Racconto “La pizza di nonna Margherita” di Tiziana Monari


Il profumo delle sfrappole della nonna arrivava col vento gelido di febbraio, insieme ai coriandoli ed alle stelle filanti di carnevale. Si insinuava come un nevischio fine dentro i maglioni a collo alto, disperdendosi nella minuscola cucina in antitesi al freddo dell’inverno. A quel tempo abitavo in un piccolo paesino di montagna, un puntino nero sulla carta geografica dell’Emilia. Una strada principale che saliva fino alle file di case dal tetto spiovente, una chiesa sbilenca fatta di mattoncini rossi, una piazza piena di bar per bere una bibita o una cioccolata calda negli indolenti pomeriggi dell’inverno. Qualche fattoria sparsa per la campagna, poche vigne assopite nel tiepido sole di febbraio. E alberi di mele che aspettavano la resurrezione della primavera. Nel mese di San Biagio in paese si accendevano migliaia di luci passeggere,in questo clima di festa,la nonna, il foulard blu in testa, le mani ruvide da lavandaia, le dita profumate di sapone di marsiglia, impastava farina, uova, e cognac in un fatuo gioco d specchi,in un’orgia di colori, aromi e capricci estetici, creando gustose leccornie ricoperte di soffice zucchero a velo. Erano le cosiddette sfrappole che se riuscite bene dovevano essere lievissime, quasi trasparenti,impalpabili. Sfornate da poco e ancora bollenti luccicavano in tavola di bagliori caramellati ,chiare come un tesoro inabissato nella grotta di Aladino. Nei vapori del carnevale,altri sapori eccentrici e ardori culinari accompagnavano il martedì grasso: il pasticcio di mele alla vaniglia,uva secca e pinoli, le frittelle ricoperte da uno strato di zucchero caramellato e gonfie all’interno di crema dorata,le frittate dolci strapazzate e mescolate all’uva passa, spruzzate da sciroppo di cioccolato o d’amarena, il creme caramel cotto a bagnomaria in uno stampo gigante che poi veniva tagliato e servito a fette come una torta. Queste ore conviviali perduravano in un banchetto perpetuo, il pranzo si congiungeva lentamente alla cena in una tavola continuamente imbandita di portate. La cucina della nonna era vissuta, piena di strofinacci e ninnoli colorati. La stufa di ghisa borbottava in un angolo insieme alla cuccuma del caffè d’orzo. C’era un frigo bianco scintillante, di una grandezza esagerata, provvisto di uno sportello metallico, un fornello pieno di schizzi d’olio, le forchette con i rebbi un po’ storti e fuori dalla finestra le stelle che splendevano tristi. La cucina cambiava aspetto a secondo delle stagioni, mentre il tempo scorreva lentamente, silenzioso, e il vento scuoteva in giardino gli alberi e i fili della corrente. La primavera arrivava con dita affusolate, avvolta da una luce morbida che si rifrangeva sulle finestre e formava aloni iridati e trasparenti. Il primo verde punteggiava l’aria dando ai prati un’apparenza sonnolenta. Quando la bella stagione suonava il campanello,la nonna si legava stretto il grembiule ai fianchi e cominciava a preparare piatti nuovi finchè il calore del giorno non si stemperava nell’azzurra brezza della sera. La tavola veniva apparecchiata con pietanze che portavano il sapore della campagna e della tradizione in bocca:tortellini in brodo, strozzapreti montanari, la pasta e fagioli fatta con elementi grassi e carnosi, con salciccia,pancetta e candidi fagioli borlotti, gli stricchetti,i garganelli, tutta pasta tirata col mattarello sensuale e saporita,il cotechino in camicia, il lombo in agrodolce con cipolline al balsamico, il tutto arricchito da insalate di pomodori, croccanti foglie di lattuga, da patate lesse sommerse dal burro e prezzemolo, da amari asparagi di campo con maionese casalinga accompagnati da uova sode. C’erano giorni in cui la primavera si ricopriva di umide carezze, nel giardino si intravedevano piccoli smottamenti di polvere rossastra. In quelle lunghe ore mi piaceva sedere accanto al camino, nel cerchio biondo delle lampade, nel divano coperto di cinz a fiori,tra morbidi tappeti cinesi e maniglie dorate, bevendo un vin brulè che fiammeggiava nella piccola stanza dalle travi posticce, sulla carta da parati rosa con i motivi a losanghe di altri tempi. In questi giorni accovacciati nella voglia d’azzurro, per compensare la tristezza della pioggia, la nonna preparava la pizza. Quella robusta,dalla fragranza sublime e compatta, immersa nel vapore dei pomodori rossi, dei capperi freschi, della mozzarella filante .Il rito della sua preparazione sarà per sempre inciso a fuoco nella mia memoria. Iniziava nella lentezza del primo mattino in quella vecchia casa con un gatto addormentato sul cuscino. Senza vanterie, senza chiasso, si preparava il pomodoro che bolliva per ore prima di essere pronto per l’impasto, si aggiungevano i capperi freschi e salati, tagliati sottili, si mescolava fino a che il profumo rosseggiante del sugo non era diventato un’alchimia principesca. A parte veniva preparata la pasta:farina, acqua, latte e lievito. Con gli occhi bassi la nonna spianava sorvolando il tempo in una grazia celestiale. Quando la pasta era pronta veniva avvolta come se fosse un bimbo appena nato in una coperta di lana, nella sua voluttà calda. E in questo mare orlato e soffice, lievitava fino a pomeriggio inoltrato in una stanza dal colore dei giorni declinanti. Nel pomeriggio s’indugiava a ordinare, ci facevamo conquistare dalla dolcezza agra della sera , dall’inebriante morbidezza della pasta ormai pronta per la cottura. In un brusio lento di parole, sfiorando immagini capovolte, la pizza veniva condita e messa nel forno caldo. Un miraggio perfetto al centro del sogno. Si serviva sulla tavola ancora fumante, un piccolo respiro caldo che si sprigionava dall’ombra, una pietanza da gustare con gli occhi, con la bocca e col cuore. E poi ,a poco a poco, nell’arco di qualche mese,l’aria velata di frescura si faceva languida, i papaveri ondeggiavano nel grano, i prati venivano bruciati dal sole, il cielo si tingeva di bianco, le stoppie prendevano il posto dei fili d’erba:era arrivata l’estate. Tutto cambiava in poco tempo, le felci si trasformavano in cespugli d’oro stinto, le cascate di ginestre si univano al colore di quei giorni allargati alla luce. Nell’orto tondo del nonno le pesche erano mature. Ciondolavano appese ai rami in un piacere del dopo ,in attesa di essere colte. Nella malinconia calda del pomeriggio, quando la stanchezza diveniva barca per un lento viaggio, le pesche finivano raccolte, pulite e riposte in una cassetta di legno. Venivano cotte con rum e cioccolata e servite insieme ad un vasto campionario di frutta mediterranea:l’anguria dolcissima, il melone rugoso, l’uva di ogni forma e colore, i piccoli fichi dell’orto, quasi cremosi, le ciliegie dalla polpa morbida e un po’ filamentosa che si servivano insieme ad un vino bianco ghiacciato fatto insaporire e macerato a delle scorze di limone in capaci caraffe di cristallo. Alla fine dell’estate, quando le vacanze erano agli sgoccioli si andava per more, sempre nello stesso posto: alla salita del ponte del confine. Ogni anno i cespugli diventavano più fitti e pungenti. Nella luce ancora calda di settembre si coglievano piccole more di un nero brillante, per fare qualche vasetto di marmellata o un sorbetto da mangiare il giorno stesso. Una dolcezza gelata che racchiudeva tutto il bello della stagione che stava per finire. Con le more raccoglievamo anche l’estate, le prime foglie si ingiallivano, la luce si smorzava,i ricci delle castagne facevano capolino sui sentieri. Mi mettevo addosso il maglione a trecce larghe che mi aveva fatto la nonna l’autunno prima, quello rosso, che aveva il colore del fuoco quasi spento. I sentieri del bosco si tingevano di miele ed ambra, la nebbia leggera penetrava dolcemente cose e persone. Tutto diventava lento al limitare dell’inverno. Il paese si addormentava come fosse rinchiuso in una boccia di vetro, le giornate diventavano pesanti, ciascuna nel solco del proprio sogno. I colori trasformati in piombo, le strade grigie, la neve che scendeva copiosa in una fissità malinconica. L’azzurro diventava fittizio, cominciava a nevicare anche dentro di noi. Solo allora la nonna per riempire quelle ore vuote, dopo la prima colazione, nella sua sapienza puntigliosa preparava il pasticcio di maccheroni, le maniche delle camicie rimboccate attorno al silenzio limpido dell’inverno, le mani che si spostavano rapide tra un piatto di portata , il pane abbrustolito e le brocche del vino in una mescita sempre nuova di gusti ruvidi e duri,teneri ed asprigni. Sono dipinti ad acquarello sul mio cuore questi scampoli di sole che ho colto da bambina. Piccole osmosi domestiche che avevano la felicità del primo ballo e la malinconia di non poterne farne parte. Hanno la voce dei miei nonni, la loro piccola luce allungata nella mia vita anche adesso che loro camminano sul filo , funamboli in un mondo più puro di questo. Avranno per sempre il profumo della vaniglia, delle arance bruciate sulla stufa, di un’infanzia amica, anche ora che piano piano sta scendendo la sera.

Nessun commento: