giovedì 22 settembre 2011

MURMANNUOLO, il racconto di Rosario Castronuovo per "Wine on the road"




Ancora un racconto per “Wine on the road”.

Felicitazioni all’autore, segnalato al concorso letterario di Villa Petriolo 2011.

Rosario Castronuovo è nato a Teana (Potenza) nel 1950 e abita a Fiorano (Modena).

Racconta di sé: “Scrivo principalmente poesie. Spesso ho vinto o sono stato classificato ai primi posti in occasione di concorsi letterari. Autorevoli e ottime recensioni hanno accompagnato la mia evoluzione artistica. Sono presente in numerose antologie e riviste letterarie. E’ in edicola la mia ultima raccolta “La lacrima dell’angelo”. La mia poesia parla del mondo della mia infanzia. Alcune mie poesie sono state scelte per spettacoli teatrali, altre sono state musicate”.


Racconto “MURMANNUOLO” di Rosario Castronuovo

Quella mattina zio Giovanni dell’uccello girava per il paese, suonava il corno e gridava
- E’ arrivato domani il padrone della marina. Nella piazza alle otto -.
Era la metà del mese d’aprile, le messi nei campi vicino al mare maturano presto e bisogna mieterle prima che lo stelo secchi e al momento di mietere i chicchi si disperdano per terra.
All’alba di una mattina della fine di maggio si ritrovarono in piazza trentatré uomini e sette donne. Le serve di don Nicola offrivano “L’antico”, il vino del posto, e i mozziconi per accompagnarlo, tocchetti di pasta fritta e salata fatta con farina, olio, acqua e uova.
Caricarono gli asini e partirono.
Gli anziani conoscevano bene la strada, negli anni precedenti erano andati a mietere nei paesi vicino al mare, ed erano stati apprezzati per la serietà. Nel pomeriggio, sulla loro destra apparve, arroccata intorno alla collina come favo di un alveare appena uscito dal nido e fermatosi su una roccia, Rotondella.
Si diressero verso la piazza del paese dove c’era la chiesa madre. Si sistemarono sui gradini, aprirono i tascapani e mangiarono al centro del ripiano che porta in chiesa. Da una casa uscì una donna con in mano un fiasco di vino di cinque litri, andò verso di loro per offrirglielo.
All’ alba del mattino dopo arrivò un uomo e li scelse tutti per mietere il suo campo.

Per permettergli di andare a messa il padrone pagava la mezza giornata di domenica anche se non lavoravano.
La mattina della prima domenica di giugno, Alessandro infilò i pantaloni puliti e una canottiera bianca ed andò in paese insieme ai suoi compagni. Una donna anziana vestita di nero s’affacciò sull’uscio di casa, con un cenno fece capire ad Alessandro di seguirla e andarono alla sua casa.
La magara aveva saputo della sfida, gli disse che se voleva vincere avrebbe dovuto fare un patto con il diavolo, si era alzata presto quella mattina, aveva impastato un chilo di farina e l’aveva fatta lievitare, acceso il forno e infornato il pane.
Una volta cotto e sfornato lo portarono nella stalla e lo infilarono nel letame.
Alessandro non aveva capito, la magara gli spiegò – Abbiamo impastato e fatto lievitare la farina, ed è peccato grave, panificato e infornato, altro grave peccato. La domenica è del Signore. Lo abbiamo nascosto sotto il letame: terzo peccato grave, il pane è considerato il volto del Signore. Ti tocca l’aiuto di un diavolo potente -.

Nel giorno dedicato a Sant’Antonio da Padova protettore delle messi, il 13 giugno, il paese era in festa. Nel pomeriggio Alessandro portò con sé la falce e ritornò a casa dalla magara, andarono nella stalla e disseppellirono il pane, presero un verme vivace, bucarono il manico della falce e ce lo infilarono con la testa rivolta verso la lama. Andò via mentre la magara gli augurava di morire, come al lupo, a cui se odiato luce il pelo.
Nel tardo pomeriggio, tutti gli anni tra il capo dei mietitori ed uno sfidante si disputava una gara dedicata al Santo. Uno dei padroni per ingraziarsi i suoi favori gli offriva il grano mietuto in quel campo.
Il capo dei mietitori metteva in palio la sua carica, l’autorità e la dignità.
Il vincitore aveva il diritto di patteggiare ogni anno con il padrone la paga della giornata di tutti i mietitori, il primo giorno recarsi nella piazza insieme ai padroni per sceglierli.

Verso le cinque di pomeriggio c’era ancora caldo, l’aria lentamente incominciava a stemperarsi. La banda per richiamare la folla suonava tarantelle veloci, furono portati botticelle e fiaschi di vino, barili e brocche piene d’acqua. I due sfidanti si prepararono, indossarono il pettorale per ripararsi dai colpi, controllarono la falce, infilarono sulle dita i cannoli.
Agli anziani piaceva questo giovane coraggioso dal cuore limpido arrivato per la prima volta nel loro paese. Si misurava in una prova difficile.
Murmannuolo, il padrone del campo, si alzò e invitò i due mietitori a prepararsi, – Il campione mieterà all’interno. Vince chi strappa l’ultima spiga al centro del campo – disse. Mietere all’interno avrebbe avvantaggiato il campione. Tutti lo sapevano. Gli sfidanti erano pronti, si strinsero la mano, si sentì un colpo di fucile e partirono.
Il campione si produsse subito in uno scatto rabbioso e fu già avanti, Alessandro lo guardava con invidia mietere sicuro di se. Non si aspettava questo suo comportamento.
Qualche anziano gli aveva consigliato di non rispondere agli scatti.
Pensò che il campione stesse volando tranquillamente verso la vittoria, non c’era storia. Nei giorni successivi gli sarebbe toccato subire gli sfottò di amici e conoscenti.
Nonostante tutto Alessandro tenne un buon ritmo, tanto che il pubblico lo incitò con forza. Gli anziani, con alzate di spalle e sorrisi ironici, di chi “la sa lunga”, gli concedevano fiducia. Il soffio di un alito di vento portò l’odore del sudore di Alessandro al campione che non poteva scattare perché stanco, aveva rallentato vistosamente, sperava di mantenere un minimo vantaggio. La gola dei due contendenti si asciugava e la saliva inghiottita a causa dello sforzo s’impastava in gola amara come il veleno, sempre di più alzavano la mano per chiedere acqua e vino. Verso la metà del percorso, colmato lo svantaggio iniziale, Alessandro ebbe una crisi, la testa sembrava gli scoppiasse, un brodo caldo il sudore scendeva lungo la schiena, colava copioso dalla fronte sulle ciglia e bruciava gli occhi, arrivava sulla lingua salato.
Capì che il campione era troppo forte, avrebbe fatto bene a ritirarsi, stava per mollare.
- Cosa sta facendo il verme? - pensò - Forse si è girato?-.
Gli venne in soccorso la rabbia, strinse i denti, non sarebbe finita in quel modo, ripartì ansimando come un toro al macello, quello era il momento cruciale della gara, con uno sforzo bestiale raccolse le forze per non farsi distanziare, ripartì con tanta rabbia, l’ultimo ciuffo di grano era vicino.
Gli spettatori adesso erano al massimo dell’eccitazione, euforici incitavano i contendenti, gli uomini bevevano e il sole friggeva il cervello.
Il campione, piegato, rallentò notevolmente, quasi si fermò, Alessandro riprese coraggio e ritmo e lo affiancò. Si voltarono per controllarsi, si ritrovarono naso a naso, e si guardarono negli occhi. Erano due larve sfinite che si compativano l’un l’altro, avrebbero voluto mordersi a vicenda.
Avevano dato tutto quello che avevano in corpo, avevano mietuto tutto il campo e si trovavano vicini al traguardo. Avrebbe vinto quello capace di sputare per primo fuori l’anima, Alessandro con uno scatto improvviso falciò l’ultimo ciuffo di spighe al centro del campo e vinse.

Il padrone si avvicinò, prese mano di Alessandro e l’alzò in segno di vittoria. Gli abitanti del posto sapevano che ci sarebbe stato ancora un supplemento breve ma non meno significativo di spettacolo.
Alessandro era in piedi con le braccia alzate e la falce in mano in segno di vittoria, ansimava e riprendeva fiato.

Improvviso scattò in avanti, ad ogni giravolta saltava e staccava con un taglio preciso della falce un bottone dal gilet del padrone, accompagnato da un “hooo” del pubblico, nel ricadere lo recuperava al volo con la mano sinistra alzata verso il cielo.
Ripeté il gesto per cinque volte. Immobile come una statua il padrone vedeva passare vicinissima la lama della falce davanti al suo viso.

Con il prezioso trofeo in tasca, Alessandro appoggiò la falce sul petto del padrone con la punta rivolta verso il basso e chiese da bere per tutti. Il padrone dapprima sembrò offeso poi invitò tutti alla baracca, a bere ed a mangiare pane e salsiccia arrostita fino a notte tarda.

Il vecchio campione doveva dare l’esempio era stato un uomo forte e rispettato da tutti, la regola imponeva al perdente di farsi umiliare, rimanere a spigolare come donna, nel campo mietuto, anche l’enorme luna estiva arrossì di vergogna. Dopo un po’ vide Alessandro andare verso di lui con un bicchiere di Calatammor, forte e profumato vino di Rotondella, lo prese sottobraccio e lo condusse alla baracca.

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