martedì 1 febbraio 2011

La gaia mensa: il racconto "Il fato di Federico" di Alessandro Danieletti




Ancora bei racconti dalla raccolta de “La gaia mensa”, il concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2010.
Oggi che le anticipazioni sul bando 2011 sono state pubblicate, in attesa che esca il bando ufficiale (8000 battute in lingua italiana, come da tradizione), torniamo a ringraziare tutti coloro che ci hanno voluto donare le loro parole!

Alesssandro Danieletti è nato a Milano e risiede a Perugia.
Alessandro racconta di sé: “Sono un appassionato lettore e, tra altri grandi, cerco di approfondire Nietzsche: amando molto anche i piaceri della tavola, l’idea, ispirata dal titolo del concorso, di amalgamare le due passioni era troppo “appetitosa” per non partecipare al banchetto letterario”.


Ringraziamo Alessandro e vi invitiamo alla lettura de “Il fato di Federico”!


Racconto “Il fato di Federico” di Alessandro Danieletti


Oh, Dioniso, mio dio dell’ebbrezza!
Ti invoco nel crepuscolo di questo giorno, alzo il calice di malvasia e tramonto con il sole nel liquido ambrato. Mi immergo nel vino, lo mescolo al mio sangue, il piacere mi pervade e sento in lontananza i tuoi cori di ditirambi. La notte è innanzi a me, danzo nei suoi suoni, gioco nel buio, entro nell’antro della Sibilla, foglie profetiche sfiorano il mio corpo, le lascio andare nel vento; solo il vino e il mistero mi sono compagni.

Sento ancora gli echi frementi della notte ma con l’aurora è Apollo a sedermi accanto. Ed è nelle illusioni del suo sogno che entro alle prime luci del giorno.
Sono consapevole della mia grandezza e intuisco il mio fato, sono un uomo postumo, destinato a vivere dopo la morte, il che mi procura più spesso una vaga e trasognata malinconia piuttosto che una vanagloriosa esaltazione; la contezza della gloria postuma, o dell’immortalità, dà alla vita un certo qual sopore più che un sapore, forse perché nel sogno viviamo già ogni giorno con la nostra lunga ombra che ci sopravviverà, ma in questo lungo soggiorno italiano, gioie di gusto fin qui sconosciute si sono aperte ai miei sensi e Apollo gioca con me lasciandomi immaginare quale destino mi avrebbe arriso se mi fossi chiamato Federico Nicce, fossi stato italiano: nato e cresciuto con il profumo di pasta al pesto, amatriciana o pizza e basilico nel naso.

Proprio in questo momento un aroma che viene dalla cucina sta pervadendo il mio studio, corrompendo ogni riflessione. Fernanda, la cuoca della pensione, è una creatura divina: dalle sue mani nascono sapori sublimi, si scatenano gusti metafisici. Al di là del bene e del male.
Qualche giorno fa è stato un odore intenso e invadente a spingermi verso la cucina. Mi sono avvicinato lentamente alla porta socchiudendola. Ho contemplato, per non so quanto tempo, il ciclo perfetto del carciofo fritto. La farina avvolge lo spicchio, nell’olio bollente prima è uno sfrigolio vivace, poi un gorgoglio costante che lascia emergere il guerriero dorato. Un letto di carta asciuga l’umore del soldato che resta in attesa degli altri ancora al turno di doratura dell’armatura. Un esercito perfetto per sapore, odore e colore. Buono, troppo buono. Superbuono.

La gaia mensa di Fernanda è un’estasi di sapori, è arte plastica dalle forme armoniose, è forza vitale di gusti e aromi da esplorare.
Quando prepara ragù e tagliatelle, credo di assaporare il godimento di cui diceva Tiresia a proposito della torta del piacere umano: gli dèi curiosi vollero sapere da lui in quale dei due sessi fiorisce più rigoglioso il piacere e lui, che era stato per qualche anno anche donna, rispose che se il piacere fosse stato una torta e la torta divisa in dieci fette, nove sarebbero andate alla donna, perché gode con l’anima. Ma anch’io, benché becero maschio materiale, alla gaia mensa di Fernanda mi unisco ai suoi aromi per una sorta di piacere dell’anima.
Scrivere la ricetta mentre racconta il rito della preparazione e gli odori penetrano con insistenza nel mio corpo, mi fa esclamare “io sono ragù tutto intero, e nient’altro”.
Ma dunque, così parlò Fernanda: “prendo due costole di sedano, una cipolla, una carota e un ciuffo di prezzemolo. Con la mezzaluna trito tutto finemente e lascio appassire il battuto nell’olio….”
Mentre pronuncia queste parole resto come imbambolato dall’ondeggiare ritmico, preciso e deciso, della lama che sminuzzando unisce ciò che era diviso. Intanto Fernanda mescola e dice : “…aggiungo la carne, di vitello e maiale, a pezzetti (ci metto anche una foglia di alloro) e la lascio rosolare bene…”
La carne sfrigola assetata di vino, io attendo impaziente le parole di Fernanda: “…verso un po’ di vino bianco. Quando è evaporato e la carne ben asciutta, aggiungo il pomodoro passato. Lascio cuocere coperto a fuoco lento e pappuliare per almeno tre ore”.
La sua mano che solleva il coperchio squarcia anche il velo di Maya. Respiro come un suffumigio il profumo che ha liberato, assaporo la bellezza e lascio che il mio spirito si predisponga alla conoscenza di un godimento lento e duraturo.
Gli aromi del ragù persistono per tutta la notte, in compagnia di Dioniso danzo nel soffritto, nel “pappuliare” improvviso del pomodoro, nella densità seducente del sugo in cui al mattino Fernanda scorge le tracce del mio dito avido di piacere.

Ormai conosce le debolezze della carne e mi lascia persino assistere alla nascita della tagliatella: un atto creativo assoluto. L’impasto morbido e compatto modellato dalle sue mani con gesti sapienti e magici è argilla creatrice: mi capita di socchiudere gli occhi per sentirmi parte di quell’impasto, fuso con le uova e la farina in un unico composto da cui i colpi precisi e decisi del mattarello generano suoni antichi al contempo celestiali e terreni. Riposo con il manto disteso, mi avvicino per udirne il respiro calmo e regolare mentre sfioro con la mano la ruvidezza pastosa. E’ una pelle di donna genuina e fiera, che conosce le asprezze della terra. Poi le mani di Fernanda si avvicinano di nuovo: raccolgono il manto in pieghe amorevoli come seta delicata, sollevano strisce di tessuto morbido e irregolare lasciandole fluttuare nell’aria, quella tenda sinuosa dinnanzi agli occhi, evoca in me un novello Anchise; mi sembra di ravvisare, come accadde a lui, tra gl’improvvisi svolazzi della tenda, Venere, per descrivere la cui bellezza la parola umana è troppo insipida. Mi abbandono al piacere e lascio che la dea faccia di me ciò che vuole. Il volere del Fato era che Anchise facesse generare alla divina Afrodite Enea, che ebbe poi, per merito di un poeta italiano, un grande destino: poetico, letterario, che è l’unico che alla fine valga davvero, poiché una mera cronaca di fatti incerti, quando sono trascorsi un paio di millenni, conta poco, e a tutti noi piace ricordarci piuttosto di una leggenda poetica anziché il solito sangue rancido della storia. Io…io per volere del Fato dovevo generare nel mio pensiero l’eterno ritorno: ”Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere”. Non è uno scherzo, è un pensiero che stritola. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?”. La cosa bizzarra è che questo pensiero, che certo resterà tra i miei più celebri, non è scaturito come tanti altri da profonde elucubrazioni bensì da una subitanea illuminazione. Oh, ne ho avute altre, che penso pian piano verranno scoperte, ma l’ispirazione di questa forse resterà misteriosa perché semplicemente nessuno immaginerà mai che mi venne a un tratto mentre uscivo estasiato dalla cucina di Fernanda. Al pari di una bella donna, e della verità, dà più felicità desiderare le tagliatelle al ragù piuttosto che possederle. Ammirarle, desiderarle, conoscerle. Questo è l’istante immane che vale l’eternità. Ammirare, desiderare, conoscere. Per l’eternità. Ecce illuminatio, ecce magnum secretum.

Nel crepuscolo mio amato Dioniso mi vieni di nuovo incontro.
Lo so, il mio è il fato di un grande tedesco di nome Nietzsche, la cui eco trapasserà ogni tempo, ma ancora per questa notte, al rimbombo dei tuoi cori, mi fondo nell’estasi dell’alter ego italiano. Lasciami in compagnia della malvasia e del suo profumo, concedimi di salire sul tuo carro, sorseggiare la potenza della mia solitudine, sedere sulla soglia dell’attimo, avido di conoscere e gustare la vita.

Nel sole del nuovo giorno, la lira di Apollo canterà il mio ritorno in Germania.
Chiederò a Fernanda di prepararmi provviste per le mie illusioni.

1. Termine napoletano che deriva dal rumore sordo delle bollicine prodotte dal ragù che bolle lentissimamente



Tagliatelle al ragù

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