mercoledì 18 novembre 2009

Dei modi più eleganti di scendere dai tacchi. Sylvia Plath, la bambina che voleva essere Dio



“La bambina che vuole essere Dio”, questa la firma in calce alle pagine del diario di Sylvia Plath, poetessa tra le più rilevanti della nostra epoca, la cui vita e la voce hanno il sapore della tragedia classica...



Dedichiamo a Sylvia questo mercoledì Dei modi più eleganti di scendere dai tacchi.

Joyce Carol Oates, nei "Capolavori di Sylvia Plath" editi da Mondadori, racconta la tragicità della sua lirica: "(...) come nella poesia Specchio, l'occhio di un piccolo dio che si immagina senza preconcetti, non velato da amore o da avversione. E' l'audace hybris della tragedia, l'inevitabile dichiarazione di sfida alla realtà di chi partecipa a un'azione drammatica senza sapere che si tragica. Muore, e solo noi possiamo capire lo scopo della sua morte: illustrare l'errore di una personalità che si credeva divina".



Sylvia Plath, nata a Boston, trascorse l'infanzia nella cittadina costiera di Winthrop nel Massachusetts. Suo padre Otto, un entomologo di origine tedesca, morì quando Sylvia era ancora piccola, un tragico episodio che lasciò un segno profondo nella sua psiche. Studentessa brillante e creativa, nel 1950 ottenne una borsa di studio per il prestigioso Smith College e nel 1953 vinse un soggiorno a New York come guest editor della rivista femminile "Mademoiselle" che aveva pubblicato un suo racconto. Il suo unico romanzo "The Bell Jar" (La campana di vetro, 1963), è basato su quella esperienza profondamente deludente di vita nella metropoli. Il ritorno a casa coincise con il manifestarsi di gravi crisi nervose che culminarono in un tentativo di suicidio. Dopo alcuni ricoveri in ospedale e dolorose cure (tra cui l'elettroshock), Plath tornò allo Smith per laurearsi nel 1955 con una tesi sul "doppio" in Dostoevskij. Nello stesso anno vinse una borsa Fulbright per l'università di Cambridge in Inghilterra: fu questo il setting dell'incontro col poeta inglese Ted Hughes, che sposò nel 1956 e con il quale tornò negli Stati Uniti. Dopo un breve periodo di insegnamento a Smith, lavorò in un ospedale psichiatrico, e nello stesso periodo seguì le lezioni di poesia di Lowell a Boston, dove conobbe Anne Sexton. Tra le due poetesse nacque una forte amicizia sorretta da grande empatia e da sconcertanti analogie biografiche. Nel 1959 Plath e Hughes tornarono in Inghilterra e si stabilirono in un villaggio del Devon. Nel 1960 nacque la loro prima figlia Frieda e nello stesso anno uscì The Colossus (Il Colosso), il suo primo volume di poesie. Poco dopo la nascita del secondo figlio Nicholas (1962), i due si separarono. Trasferitasi a Londra da sola coi figli, Sylvia continuò a scrivere, ma nel febbraio del 1963, all'età di 31 anni, incapace di trovare una sintesi tra le ambizioni artistiche e le quotidiane incombenze esistenziali, si tolse la vita. Le sue poesie furono in gran parte pubblicate postume da Ted Hughes che curò anche l'uscita dei suoi Diari.



Per Sylvia Plath la scrittura è cura.
Il suo sentirsi dolorosamente inadeguata la muove ad indagare i temi più antichi dell'identità. La più intima ferita, legata alle figure genitoriali, lei la butta in faccia a chi la legge, senza veli. La sua poesia - che è difficilissima da tradurre; praticamente introvabile la versione di un'altra grande poetessa, Amalia Rosselli - è di un'intensità, di una verità, che sconvolge. Tutti possiamo riconoscerci in quelle note dolenti, in quell'urlo che sempre si alza dalle sue parole.



Nelle muse inquietanti Sylvia Plath rivolge un duro attacco alla madre, ritenuta colpevole di aver ignorato i terrori che dominano l'inconscio della scrittrice.

Come le cattive fate al battesimo, questi terrori sono i compagni di vita più intimi, di cui la madre, lontana dalla realtà della figlia turbata, non vuole ammettere l'esistenza. Nel corso del testo vengono tessuti insieme ricordi dell'infanzia, echi di antiche ballate ("E questo è il regno a cui mi hai portato, mamma, mamma") e la classica fiaba a lieto fine, qui ironicamente capovolto.


Le muse inquietanti


Mamma, mamma, quale zia maleducata
o cugina sfigurata e repellente
dimenticasti cosi sconsideratamente
d'invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore
dalla testa come un uovo da rammendo,
per dondolarla e dondolarla ai piedi,
al capo e a sinistra della culla?

Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l'orsetto coraggioso,
mamma, tu le cui streghe sempre sempre
finivano cotte in forno insieme al panpepato,
chissà se le hai viste, se hai detto parole
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intomo al letto,
senza bocca, senz'occhi, la testa calva tutta toppe?

Quando ci fu l'uragano e nello studio
di papà s'incurvarono le dodici finestre
come bolle prossime a scoppiare, tu preparasti
a mio fratello e a me biscotti e Ovomaltina
e ci insegnasti a cantare tutti in coro:
"Thor è arrabbiato: bum bum bum!
Thor è arrabbiato: che ce ne importa?"
Ma quelle signore ruppero le vetrate.

Quando a scuola le bambine eseguirono la danza
sulle punte e facendo lampeggiare le pile
cantarono la canzone delta lucciola, io non riuscivo
a muovere un piede nella mia veste coi lustrini
ma me ne stavo in disparte, goffa,
nell'ombra gettata dalle mie madrine
dalla lugubre testa, e tu piangevi, piangevi,
e l'ombra si allungò, si spensero le luci.

Mamma, mi mandavi a lezione di piano
e lodavi i miei trilli e arabeschi,
benché tutte le maestre giudicassero il mio tocco
stranamente legnoso nonostante le scale
e le ore di esercizio, e il mio orecchio
stonato e, sì refrattario alle lezioni.
Ho imparato, ho imparato, ho imparato altrove,
da muse non assunte da te, mamma cara.


Un giorno mi sono svegliata e ti ho vista, mamma,
che galleggiavi nell'azzurro più azzurro
su una mongolfiera verde coperta di un milione
di fiori e uccellini azzurri che mai mai
si videro, in nessun luogo mai.
Ma il piccolo pianeta volò via saltellando
come una bolla di sapone mentre tu gridavi: "Vieni, vieni!".
E io restai sola davanti alle mie compagne di viaggio.

Giorno e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi,
stanno a veglia con vesti di pietra,
le facce vuote come il giomo in cui nacqui,
le ombre lunghe nel sole calante
che mai splende più vivo e mai tramonta.
E questo è il regno a cui mi hai portato,
mamma, mamma. Ma nessuna espressione del mio viso
tradirà la compagnia che frequento.


(trad. Anna Ravano)



Un'iniezione di coraggio, Sylvia Plath. Che affronta il buio e lo racconta.

2 commenti:

Antonio ha detto...

Cara Silvia,
“incapace di trovare una sintesi tra le ambizioni artistiche e le quotidiane incombenze esistenziali”.
Due giorni fa ho letto sul Corriere della pubblicazione del carteggio fra Bianca Garufi e Cesare Pavese ed ora le tue parole me ne richiamano memoria.
Ecco il mio Cavaliere, Cesare Pavese.
Anche la sua infanzia fu costellata di lutti e solitudine. Eventi tragici che contribuirono a formare una personalità sensibilissima.
Un personaggio difficile, intriso di una cappa malinconica e aspra che annichilisce, esaurisce eppur attrae quasi con compiacimento chi la possiede. “Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile (...) siamo una bellissima coppia discorde”, scriveva a Bianca.
Da Natalia Ginzburg:
“I suoi versi risuonano al nostro orecchio, quando ritorniamo alla città o quando ci pensiamo; e non sappiamo neppure più se siano bei versi, tanto fanno parte di noi, tanto riflettono per noi l'immagine della nostra giovinezza, dei giorni ormai lontanissimi in cui li ascoltammo dalla viva voce del nostro amico per la prima volta: e scoprimmo, con profondo stupore, che stride della nostra grigia,pesante e impoetica città si poteva fare poesia.
Il nostro amico viveva nella città come un adolescente(..). Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a
diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo - la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine,di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l'aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c era riuscito; o se invece si era proposto,semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fosse la sua.
Conversare con lui, d'altronde, non era mai facile, nemmeno quando si mostrava allegro: ma poteva essere, un incontro con lui anche composto di rare parole, tonico e stimolante come nessun altro.
Diventavamo, in sua compagnia, molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze. (..)Non ebbe mai una moglie, né dei figli, né una casa sua.(..) pensava anche lui a farsi una famiglia, ma ci pensava in un modo che si faceva, con gli anni, sempre più complicato e tortuoso; cosi tortuoso, che non ne poteva germogliare nessuna semplice conclusione. Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l'attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante.(..)Non fu, per noi, un maestro, pur avendoci insegnato tante cose: perché vedevamo bene le assurde e tortuose complicazioni di pensiero, nelle quali imprigionava la sua semplice anima;(..) Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all'ultimo, nella figura, la gentilezza d'un adolescente.
Diventò, negli ultimi anni, uno scrittore famoso;(..)Quando gli chiedevamo se gli piaceva d'essere famoso, rispondeva,con un ghigno superbo, che se l'era sempre aspettato (..)Ma quell'esserselo sempre aspettato,significava che la cosa raggiunta non gli dava più nessuna gioia:perché era incapace di godere delle cose e di amarle, non appena le aveva(..)”
Patologia: non riuscire ad amare “il corso quotidiano della vita che procede uniforme, e apparentemente senza segreti”. Chi ne è immune?

silvia ha detto...

Caro Antonio, attacco anch'io riportando una tua citazione..."Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l'attuazione della realtà più semplice". Che condanna...dovremmo pensarci costantemente a questo rischio che si corre ogni giorno, quando non ci godiamo le piccole gioie che la vita ci dona. Certo, nel caso del tuo sensibile cavaliere e della mia ardita dama parliamo di anime eccezionali, che dello scandaglio del proprio IO vivono, e muoiono. Il mestiere di vivere è duro, lo sappiamo bene tutti. Che le parole bellissime dei nostri scrittori ci aiutino ad affrontarlo.

Un abbraccio.